Si fueris Romae, romano vivito more;
si fueris alibi, vivito sicut ibi. Agevolo (per dirla alla Ossy) un articolo che a suo tempo trovai alquanto interessante:
www.trapanisiannu.it/repubblica150307.htmMi metto tra le fila degli strenui difensori del dialetto;
non ho alcun problema ad ammettere che in casa mia viene tranquillamente parlato, che quando mi reco a Verona la suocera parla con me in dialetto e via a seguire (i memorabili intercalari con gli amici da sana vita bresciana, ricordi di una gioventù che per nulla al mondo vorrei cambiare).
Difendo a spada tratta le radici; sono certa che la ricchezza stia nella diversità; che andare in Veneto e trovare chi ti riprende per una vocale troppo chiusa rasenta il ridicolo e che in clima di apertura al diverso dovremo riflettere alquanto.
Il dialetto a mio avviso puo' diventare uno splendido codice di riconoscimento personale, così come lo devono restare le inflessioni o certe parentetiche enfatizzanti (sempre per dirla alla Ossy).
Mi rendo conto con piena coscienza di poter però parlare così;
mi è stato insegnato molto per bene l'italiano; ho sempre frequentato ambienti che in ambito culturale non potevano che segnare un certo percorso molto purista da questo punto di vista e per quanto mio padre, con adorabile dedizione, mi abbia convinta ad amare il mio dialetto, i miei genitori mi hanno cresciuta non insegnandomelo di proposito.
Quindi posso fare certe affermazioni perchè ho padronanza anche dell'italiano; ma vorrei che il mio non rientrasse in un atteggiamento radical chic; io credo seriamente che il dialetto vada valorizzato e non provo ribrezzo di fronte a chi conosce soltanto quello; mi dispiaccio piuttosto che "i bei discorsi restino sempre dentro una stanza" e che non sia stata data o non sia data a tutti la possibilità di conoscere entrambe le cose. (e il discorso vale in generale per lo scibile umano), per rispondere se non altro a quei diritti sanciti nella costituzione che impongono di rimuovere gli ostacoli, anche linguistici, che rendono difficile la partecipazione di tutti i cittadini alla vita del Paese.
Don Milani diceva: " “Finchè ci sarà uno che conosce 2000 parole e uno che ne conosce 200, questi sarà oppresso dal primo. La parola ci fa uguali".
Don Milani non si poneva il problema di quale lingua bisognasse insegnare ai poveri, perchè operando nell’ambiente rurale toscano non avvertiva la distanza tra lingua e dialetto e di conseguenza si concentra sull’obbiettivo di un più vasto e sicuro patrimonio lessicale (2000 parole invece di 200, sempre nell’ambito dello stesso codice linguistico). Egli percepiva, invece, la distanza che separa la lingua dell’uso dalla lingua letteraria che si insegna nelle scuole, tanto è vero che ai suoi ragazzi preferiva insegnare la lingua attraverso i giornali, avendo constatato che gran parte del mondo contadino e operaio non era in grado di comprendere i messaggi trasmessi dai mezzi di comunicazione di massa. Ciò non significa però che bisogna usare con i poveri un linguaggio inferiore.
Il movimento per l’Educazione linguistica democratica, ispiratosi a Don Milani, ha contestato la pedagogia linguistica tradizionale per l’inefficacia dei suoi metodi e per il suo carattere classista. Le idee-guida dell’educazione linguistica democratica sono il riconoscimento della centralità per i dialetti, le lingue minoritarie e le diverse varietà d’uso dell’italiano, l’importanza attribuita alle abilità linguistiche ossia la capacità di comprensione e di produzione di messaggi sia orali sia scritti.