<Penelope> |
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| Qualche mese fa ho letto una rivista yoga, YogaJournal, in cui c'era un piccolo editoriale dove la scrittrice riportava un aneddoto: sua figlia piccola faceva i capricci e non voleva mangiare le lasagne quindi seguì una discussione e l'ennesima scenata. Dopo qualche minuto la madre era ancora lì che rimuginava su quanto fosse debole come madre sulla crescita della bambina, incupendosi sempre di più, quando si accorse che la bambina stava ridendo indicando il gatto: aveva già dimenticato l'accaduto ed era passata oltre. Non stava lì ad arrovellarsi, gonfiandosi di rimorso, autocritica, ricordi spiacevoli, rancore, ecc. Era ancora troppo piccola per questo. Era in quella beata fase in cui stai male quando stai male e stop. Una volta che il dolore cessa, cessa anche la sofferenza.
Noi adulti siamo diversi: i ricordi spiacevoli ci tormentano, facendoci impazzire, pensiamo e ripensiamo a quello che abbiamo fatto, che ha fatto qualcun altro, a quello che si è detto, che non si è detto, al futuro, al passato. Non siamo quasi mai nel presente.
Da qui il mantra della rivista (che pare sia preso da un libro di Murakami, "L'arte di correre", non ho ben capito):
"Il dolore è universale, la sofferenza una scelta."
Voi che ne pensate? Siete d'accordo? Applicate questa saggezza se la ritenete giusta? Cercate di vivere nel presente? Come?
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